martedì 18 novembre 2008

Pietro Bembo, Prose della volgar lingua, libroI, cap.XV

[1.XV.] - È adunque la fiorentina lingua - disse lo Strozza - piú gentile e piú vaga, messer Carlo, della vostra? - È senza dubbio alcuno, - rispose egli - né mi ritrarrò io, messer Ercole, di confessare a voi quello che mio fratello a ciascuno ha confessato, in quella lingua piú tosto che in questa dettando e commentando. - Ma perché è, - rispose lo Strozza - che quella lingua piú gentile sia che la vostra? - Allora disse mio fratello: - Egli si potrebbe dire in questa sentenza, messer Ercole, molte cose; perciò che primieramente si veggono le toscane voci miglior suono avere, che non hanno le viniziane, piú dolce, piú vago, piú ispedito, piú vivo; né elle tronche si vede che sieno e mancanti, come si può di buona parte delle nostre vedere, le quali niuna lettera raddoppiano giamai. Oltre a questo, hanno il loro cominciamento piú proprio, hanno il mezzo piú ordinato, hanno piú soave e piú dilicato il fine, né sono cosí sciolte, cosí languide; alle regole hanno piú risguardo, a' tempi, a' numeri, agli articoli, alle persone. Molte guise del dire usano i toscani uomini, piene di giudicio, piene di vaghezza, molte grate e dolci figure che non usiam noi, le quali cose quanto adornano, non bisogna che venga in quistione. Ma io non voglio dire ora, se non questo: che la nostra lingua, scrittor di prosa che si legga e tenga per mano ordinatamente, non ha ella alcuno; di verso, senza fallo, molti pochi; uno de' quali piú in pregio è stato a' suoi tempi, o pure a' nostri, per le maniere del canto, col quale egli mandò fuori le sue canzoni, che per quella della scrittura, le quali canzoni dal sopranome di lui sono poi state dette e ora si dicono le Giustiniane -.

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